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Il destino dei prigionieri di guerra sovietici
Parallelamente ai pogrom e ai massacri degli ebrei si consuma la tragedia dei prigionieri di guerra sovietici, alimentata dalla persuasione tedesca della propria “superiorità razziale” rispetto ai russi.
Dei 5.700.000 di soldati dell’armata rossa fatti prigionieri, un milione viene rilasciato in servizio alle forze tedesche. 500.000 riescono ad evadere o sono liberati dall’armata rossa. Quasi 3.300.000 perdono la vita durante la prigionia, il 58% del totale.
Il confronto non ha eguali se si considerano le perdite fra i prigionieri di guerra occidentali (fra il 2% e il 3,5%). Nella stessa Unione Sovietica, il tasso di mortalità fra i prigionieri di guerra tedeschi è inferiore al 37,5%.
Nel 1945, non restano che 1.600.000 di sopravvissuti. A giustificazione di questo immane bilancio, Berlino adduce la mancata ratificazione della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra da parte di Mosca, così come il rifiuto da parte sovietica di confermare l’impegno preso dalla Russia zarista in favore della convenzione dell’Aia del 1907.
600.000 prigionieri di guerra russi sono assassinati sul posto, così come feriti e soldati ebrei, nel rispetto dell’ordine di Heydrich del 17 luglio 1941, che farà scattare l’esecuzione immediata di 80.000 ebrei.
All’inizio del settembre del 1941, alcuni prigionieri di guerra fungono da cavie per i primi esperimenti con il gas Zyklon B, ad Auschwitz.
Due milioni di prigionieri perdono la vita fra il giugno del 1941 e il febbraio del 1942, denutriti ed esposti alle intemperie. A partire dalla primavera del 1942 il tasso di mortalità si abbassa, dal momento che la Germania ha bisogno di manodopera.
In totale, però, solo il 15% dei prigionieri di guerra sovietici verrà impiegato nell’economia di guerra tedesca. La maggior parte degli altri era già perita.